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PAPA GALEAZZO – Vita, morte e miracoli

Di Giovanni Delle Donne
Con Massimo Giordano
Regia di MATTEO TARASCO
La storia dell’arciprete di Lucugnano, Domenico Galeazzo, vissuto nel Cinquecento, è storia folkloristica, a metà tra realtà e leggenda. E lo stesso personaggio di Papa Galeazzo vive in quel territorio di mezzo tra fantasia, sogno, mistificazione e vita vissuta; in quel territorio dove la maschera si confonde con il volto, dove la tradizione orale incontra la Storia.
Il ritratto di Papa Galeazzo restituitoci dai “Culacchi” – gli aneddoti ad esso riferiti – è materia di grande interesse per il teatro, che è appunto un mezzo di comunicazione a metà tra realtà e leggenda, proprio come il protagonista di questa storia, che è memoria viva di un territorio e della sua tradizione.
Ma non c’è la rappresentazione scenica del personaggio, in quanto Papa Galeazzo è – e deve rimanere – icona della tradizione umoristica salentina: ha il volto che ciascuno di noi gli vuole conferire, non può essere “imprigionato” nel volto di un singolo attore che lo rappresenta sul palcoscenico, perché, altrimenti, migrerebbe dal territorio della fantasia e perderebbe la sua valenza di figura popolare.
E pertanto lo spettacolo è un racconto delle gesta di Papa Galeazzo, un racconto affettivo, offertoci da un umile sacrestano che ha vissuto da vicino questo mito, ma che ne conosce anche limiti e difetti. Costui diviene così, per una sera, come Omero, il cantore delle mitiche gesta di un eroe atipico, burlone e irriverente, quel Papa Galeazzo da Lucugnano che è immortale, come le maschere della commedia dell’arte, e che è certamente un antenato della moderna commedia all’italiana.

SOGNO DI UNA NOTTE DI MEZZA ESTATE


Di William Shakespeare
con Angela De Gaetano, Chiara De Pascalis, Enrico Di Giambattista, Nikola Krneta, Milivoje Lakic, Ana Mulanovic, Luca Partore, Andrea Simonetti, Fabio Tinella
Regia di Tonio De Nitto
Questo “Sogno” è come un grande cartoon, dove gesti meccanici e burattineschi si ripetono di continuo lasciando che gli attori li facciano credere ogni volta unici.
Nel delicato intreccio, sei personaggi rincorrono l’amore, lo confondono e giocano sotto un influsso magico. Ma che cos’è l’amore se non un incantesimo capriccioso?
E poi ci sono strane apparizioni, creature indefinibili, siparietti musicali ed improbabili attori alle prese con un’altra tragicomica commedia.
Tutto questo è un sogno.
Ce ne è abbastanza per far emergere tutta l’ambiguità del testo shakespeariano: l’amore sì, quello giovane e spassionato, ma anche gli scherzi del destino e le allusioni ad una dimensione di violenza e prevaricazione nascosta dietro il rapporto amoroso.
La lingua shakespeariana è attraversata dalle molte lingue che compongono lo spettacolo che, senza mai far perdere il filo, giocano a restituire i differenti piani dell’azione: la spigolosità del serbo-croato per le schermaglie di Oberon e Titania, l’improbabile inglese usato ogni tanto come lingua comune e inflazionata, il continuo gioco di cambi e scambi degli amanti che sotto influsso magico perdono e scambiano anche la propria connotazione linguistica, la musica stessa e le canzoni si sostituiscono in più di una scena all’originale drammaturgia di Shakespeare.
Questo allestimento con nove interpreti provenienti da diversi paesi, nato all’interno di un progetto speciale di cooperazione delle Regioni Puglia e Abruzzo con i paesi dei Balcani, è riallestito grazie al sostegno del progetto Teatri Abitati e di Terrammare Teatro.

 

CASSANDRA

da Seneca, Eschilo, Euripide, Baudrillard
conElisabetta Pozzi
Hal Yamanouchi, Paola Bellisari, Carlotta Bruni, Rosa Merlino
Regia di ELISABETTA POZZI E AURELIO GATTI
Un lavoro dedicato ad una figura tra le più fragili tra le eroine classiche. Attraverso il mito di Cassandra si giunge all’idea di una consapevolezza “solitaria” del percepire l’imminente, quasi a suggerire l’esistenza di una empatia universale, in cui la tragedia non è quanto avviene, ma “l’impotenza” nel comunicarlo.
Una messa in scena che restituisce una lirica del tragico, scarna ed essenziale, in cui la contemporaneità “passa” attraverso l’interprete diventando significato del presente.
La figura di Cassandra ha sempre affascinato e nello stesso tempo turbato. Profetessa non creduta, suggerisce la visione di un personaggio estremamente vivo che può arrivare ai giorni nostri per raccontarci qualcosa che ci riguarda molto da vicino.
La consapevolezza (ora come allora) degli errori commessi nel passato dai padri , la porta ad essere talmente cosciente e lucida sul futuro che avverte l’inadeguatezza del linguaggio per dire del vivere nel presente all’ombra della distruzione.
Questa nuova Cassandra è una donna contemporanea che attraverso un viatico “straordinario” ripercorre la veggenza inevitabile della conoscenza attraverso il mito e attraverso il racconto di questi si fa ella stessa Cassandra, ritrova le sue parole che pian piano diventano parole di oggi, il racconto di un mondo in cui la proliferazione di una tecnologia spesso distruttiva annulla il futuro, elimina ogni visione e prospettiva.

PENE D’AMOR PERDUTE

di William Shakespeare
Regia di Matteo Tarasco
“Pene d’amor perdute” è una delle prime commedie che Shakespeare scrisse appena arrivato a Londra, alla fine del Cinquecento, una commedia romantica, una commedia di sentimenti e di passioni. Ma è anche una sorta di rituale di iniziazione verso l’età adulta, un romanzo di formazione che coinvolge giovani ed adulti, un rituale, dove il più potente degli dei – Eros – governa le menti e i corpi di tutti i personaggi, fiaccando la volontà e l’intelletto.
Questa messa in scena concentra l’attenzione sull’idea di contemporaneità: ovvero, così come Shakespeare scelse di raccontare una storia a sé contemporanea, con riferimenti ad eventi storici e sociali di pochi anni antecedenti, così si è scelto di ambientare la storia nella nostra contemporaneità, riferendoci ad eventi di qualche anno fa. Ed è così che la Navarra – in cui Shakespeare ambienta la commedia – diviene il Salento; il Re Ferdinando è un boss della Sacra Corona Unita, che contrae un patto di sangue con i suoi uomini più fidati, decidendo di dedicarsi per tre anni ad una condizione ascetica e rigorosa. Tale patto di sangue implica l’astensione dalla frequentazione delle donne. Ma l’arrivo della bella Principessa di Francia, la figlia di un boss rivale – che comanda una masnada di fanciulle malavitose, armate e aggressive – rovinerà i piani del Navarra.
Lo spettacolo è ambientato negli anni Ottanta, quando la musica pop furoreggiava, e l’edonismo imponeva mode e modi grotteschi; canzoni famose rielaborate e suonate dal vivo, trasformeranno la commedia in una opera pop, a metà tra il “gangster movie” e la “love story”.

EDMUND KEAN – Genio e sregolatezza

Di Raymund FritzSimmons
Con Giuseppe Pambieri e con Juliane Reiss
Regia di Giancarlo Zanetti
Messo in scena per la prima volta nel1989 con l’interpretazione di Ben Kingsley, racconta la travolgente vita di Edmund Kean. Nello spettacolo Kean è concepito come un mostro, un uomo sfrenatamente ambizioso, perennemente alla ricerca di una fama immediata, un uomo convinto in modo paranoico che tutti cospirino contro di lui, un megalomane che non permette a nessuno di splendergli accanto, un uomo sinistro, un vulcano di rancore accumulato, un temporale di veleno, un torrente di bile: un uomo con una spinta incontenibile all’autodistruzione che già a trent’anni si è completamente consumato. Sì, Kean è un mostro, abbrutito dall’alcool e sifilitico. Ma Kean è il primo grande attore romantico e l’insuperabile interprete di Shakespeare.
Tutto lo spettacolo oscilla tra il suo carattere e quello dei personaggi che interpreta sulla scena, temprati dalle esperienze della sua vita. Le sue ambizioni riecheggiano nel Riccardo III. La sua misantropia sempre più profonda evoca Coriolano e Timone. Quando la sua mente è sconvolta si trasforma in Re Lear. L’addio di Otello (“Addio per sempre, pace dell’anima mia, addio felicità del cuore!”) è visto come la chiave per comprendere la sua vera personalità. Per Kean non c’è tranquillità né appagamento. Nell’addio mette a nudo la sua anima tormentata.
Fra tutte le paranoie, le megalomanie, le fanfaronate, le sbornie, le storie con le prostitute, è comunque una grande voce che chiede implorante pietà e comprensione.

ALICE

da Lewis Carrol
con Romina Mondello
e con Salvatore Rancatore, Giulia Galiani, Odette Piscitelli
Regia di MATTEO TARASCO
“Alice” non è uno spettacolo per bambini. Se i libri di “Alice” hanno acquisito la certezza dell’immortalità, questo è perché continuano ad essere letti e gustati dagli adulti. I bambini a volte si trovano disorientati dall’atmosfera “dark” dei sogni di Alice. Lewis Carroll, con il rigore del matematico, e lo scrupolo di un chierico, ci conduce in un viaggio nel profondo dell’animo umano, ove le contraddizioni più aspre si fondono, per restituire un’immagine del mondo vividamente controversa. Un mondo di meraviglie osservato attraverso lo specchio della propria coscienza, che sempre ci restituisce un’immagine distorta e traslata dell’essere.
Lo spettacolo ci ricorda che Alice potrebbe Lo spettacolo ci ricorda che Alice potrebbe essere la sorella di Amleto: lo specchio rappresenta un confine, al di là del quale tutti noi possiamo credere di essere o di non essere principi, re e regine. Se Amleto scappa e si rifugia e nella finzione della follia, Alice scappa e si rifugia nella follia della finzione, dove tutto può essere o non essere, ma nulla è un problema, bensì un enigma, che altro non è che un problema senza soluzione, come gli indovinelli del Cappellaio Matto, come gli interrogativi del principe di Danimarca.
La scena è la stanza di Alice nel Manicomio di Wonderland, una vecchia stanza abbandonata, un fetido rimasuglio dell’epoca vittoriana, che lo spettatore scruterà attraverso il pavimento sfondato del piano superiore, in una prospettiva distorta: la parete di fondo della scena è il pavimento della stanza, che è al contempo il luogo dove il male di vivere fa risuonare le proprie urla, nonché il regno di una creatura speciale che vede al di là delle cose che si vedono.